Il fenomeno del de-influencing: quando la trasparenza è tutto

Giovanni Lucatello

Giovanni Lucatello

In questo articolo si parla del fenomeno del de-influencing: contenuti social che sconsigliano determinati prodotti, consigliandone di migliori.

Chi di noi non ha mai comprato un prodotto consigliato (o meglio, sponsorizzato dietro compenso) da un influencer? Dagli oggetti probabilmente inutili di uso quotidiano ai trucchi e parrucchi, dai portachiavi-spada alle lampade a forma di papera, dai pandori alle uova di pasqua, fino alle bambole Trudi in edizione speciale (😈)… gli esempi sono infiniti.

Indipendentemente dal fatto che tutto questo venga sponsorizzato da un piccolo creator o dal mega influencer galattico di turno, l’influencer marketing è da tempo uno strumento estremamente efficace in mano ai brand, potenziato ulteriormente dalla facilità con cui alcuni contenuti diventano virali in poco tempo: ne è un esempio il trend #tiktokmademebuyit (tradotto: Tik Tok me l’ha fatto comprare), nel quale i creator mostrano (e sponsorizzano) prodotti (spesso decisamente inutili) acquistati proprio grazie a video visti sulla piattaforma.

Parallelamente a questo fenomeno, tuttavia, ne sta fiorendo uno totalmente all’opposto. Una specie di antieroe che, come nel migliore dei racconti, si sta rivelando più interessante e potente del protagonista principale: sto parlando del de-influencing.

Di cosa si tratta?

Te lo spiego, ma prima come sempre…

Connetti ‘sti puntini!

Che cos’è il de-influencing

Il de-influencing, che in italiano potremmo tradurre come de-influenzare (come sempre aiuto che roba è in italiano), consiste nello sconsigliare un determinato servizio o prodotto al proprio pubblico, mostrando allo stesso tempo soluzioni e alternative migliori: ad esempio, il de-influencer potrebbe suggerire qualcosa di più sostenibile, più economico oppure più funzionale rispetto a quanto suggerito dai trend tiktokkiani.

De-influencing: i motivi per cui è nato

Partito “ufficialmente” dal mondo del beauty-care, con esempi italiani presto diventati virali (vedi Clio Makeup e la sua rubrica dedicata), il fenomeno si sta pian piano espandendo a molti altri settori e nicchie.
Ma cosa ha dato origine a questo vero e proprio movimento?

Innanzitutto, un primo motivo è legato all’incremento spropositato delle attività di influencer marketing: le sponsorizzazioni da parte degli influencer non hanno mai smesso di crescere e i loro follower, bombardati giorno per giorno con consigli d’acquisto spesso poco trasparenti, hanno iniziato a diventare meno sensibili ai contenuti proposti; e, di conseguenza, hanno cominciato a perdere fiducia e a essere sempre più insoddisfatti nei confronti dei creator che seguono e di ciò che questi ultimi propongono.

Un altro motivo è connesso a questioni più “nobili”: consci che in molti prendono per oro colato ciò che viene proposto dagli influencer, i creator hanno trovato un modo per “sbugiardare” (come si dice in gergo) la bontà di questi consigli, proponendo appunto soluzioni migliori e (almeno in teoria) senza ricevere alcuna compensazione; si tratta, in sostanza, di una questione morale, che porta il creator a diventare quell’antieroe.

A questo aspetto si può legare una terza, ma non per questo meno importante, motivazione: la sempre maggiore volontà (in particolare delle giovani generazioni) di combattere contro lo spreco, il consumismo e la disinformazione, nonché la loro vicinanza a temi sociali e di sostenibilità ambientale; e il de–influencing, con le sue recensioni totalmente sincere, il rifiuto di collaborare con brand non in linea con i propri principi e il consigliare prodotti e servizi “adatti” rappresenta la soluzione ideale.

Gli obiettivi del de-influencing

A questo punto, visti i motivi per cui è nato il fenomeno, non ci resta che riassumere gli obiettivi del de-influencing:

  1. Promuovere una cultura meno materialista e meno consumistica della società, spingendo le persone a volere (e acquistare) solo ciò di cui hanno bisogno ed eliminando il trend di acquisto compulsivo di ogni novità.
  2. Portare quanti più utenti possibili a sviluppare il proprio pensiero critico, incoraggiandoli a ragionare sulle caratteristiche dei prodotti, sulle loro funzionalità e sulle possibili alternative già a disposizione in commercio.
  3. Mostrare e far prendere coscienza del lato oscuro degli influencer, recensendo in modo trasparente i prodotti proposti e allontanandosi dalle logiche dell’influencer marketing.
  4. Mettere in luce l’impatto delle scelte d’acquisto sull’ambiente, cercando di ridurne l’impatto e incentivando decisioni che riducono l’inquinamento, la produzione dei rifiuti, lo spostamento della merce e altro ancora.

L’influencer marketing ha i giorni contatti?

Il trend del de-influencing è certamente in espansione e ricorda altre rivoluzioni “partite dal basso”, prima fra tutte il fenomeno dei micro-influencer… ma per ora ha lo stesso effetto di un sassolino gettato in mare.
La risposta alla domanda del titolo è chiara: come direbbe il buon Mac, “Non penso proprioh”; ciononostante non tutto è perduto e, anzi, il de-influencing potrebbe comunque portare con sé una serie di cambiamenti molto interessanti.

Innanzitutto i brand inizieranno probabilmente a scegliere i propri ambassador in modo diverso, selezionando quelli con una comunicazione trasparente e franca (magari non ai livelli di Franchino il Criminale, ecco).

In più, molti influencer (in particolare quelli medio-piccoli) potrebbero cambiare modus operandi, optando per una comunicazione sincera e scegliendo di sponsorizzare soltanto prodotti che loro stessi comprerebbero e/o in linea con i loro principi.

Qualunque cosa succeda, la parola d’ordine rimarrà comunque una: engagement.
E secondo te, cosa succederà? Il de-influencing sarà un fenomeno passeggero o un vero e proprio punto di svolta per l’influencer marketing?